Le mappe di Lino Marzulli
Un approccio
Mi sembra opportuno precisare che il ragionamento non ha la pretesa di inquadrare nella sua complessità il percorso di lavoro quanto di proporre alcune, anche sintetiche, note per un artista e per il suo forte sentire la pittura.
È un fare arte quello di Lino Marzulli, inteso come segnale, come avvertimento all’osservatore che la realtà può nascondere altre verità rispetto a quelle ovvie, che il particolare del reale prescelto del quotidiano può nascondere echi insoliti, che l’occhio dell’artista, capace di accorgersi e di tradurre in immagine un soggettivo duplicato, può essere educativo nei confronti di chi osserva perché capace di far riflettere, a dispetto della “sordità” prodotta dall’uso e dal modo sempre più invasivo di produrre comunicazione, anche quella diversamente chiamata espressiva, artistica.
Infondo si tratta del desiderio di rendere plausibile, legittimo, all’oggi come ieri, il ruolo di un operatore della testa e della mano un’abilità costantemente depressa nel panorama dell’agire che la contemporaneità celebra o pretende di proporne con ostinazione un senso e una legittimità al proprio operare: questo un possibile insegnamento, indipendentemente dagli stili o dai linguaggi adottati, che si può trarre dall’intero percorso di lavoro.
Si potrebbe parlare di un lavoro di un cartografo eccentrico, che disegna costantemente “mappe” di fantasia, dove la differenza fra ciò che è noto e ciò che è ignoto, immaginato perché sconosciuto, è costantemente labile; l’esperienza acquisita, quindi la certezza nel disegnare, può, nella tappa successiva del percorso, tradursi in dubbi, in aleatorietà: il singolo quadro sembra, pertanto, la registrazione di una particolare e provvisoria “stazione” di questo ridisegno della realtà, in fondo un annotare il “qui e ora” ogni volta mutante.
È il particolare spazio-tempo del pittore che dipinge al cavalletto una scena decisamente più incognita oggi rispetto a esperienze del passato a diventare il soggetto concorrente rispetto al tema affrontato, quindi una condizione anche psicologica in continuo mutamento.
Questa occasione espositiva raccoglie un significativo nucleo di opere di Lino Marzulli, dalla fine degli anni cinquanta del secolo scorso al 2005 e intende essere un omaggio all’artista, membro della Permanente, più che una riflessione ragionata sul suo percorso artistico, altrimenti e diversamente documentata dalla letteratura dedicata al suo lavoro perché precedentemente molto e proficuamente è stato scritto: riferirsi a tale produzione mi sembra un omaggio doveroso se non obbligato.
Le stagioni della pittura
Le “Cinque terre” o “Gli stendardi”, o “I segni zodiacali” o “I giardini”: quale Marzulli conosciamo o quale percorso dell’artista è importante sottolineare? È una domanda che risente dell’attuale pesante clausola della “visibilità/riconoscibilità” di un artista in base a un particolare, magari “fortunato”, soggetto che si vorrebbe in questa occasione abbandonare perché dotata cli valore irrilevante a vantaggio, certo di una distinzione fra temi, ma, soprattutto, della ricorrenza di segnali che migrano di stagione in stagione: in sintesi è la continuità di una ricerca varia e aperta, fatta di esplorazioni e riprese perché guidata principalmente dal carattere indagatore dell’artista , da una particolare curiosità che esclude punti fermi o conclusivi.
È evidente, anche inevitabile, che una carriera artistica così ampia, l’incontro con altre esperienze pittoriche, altri linguaggi, anche il mutare del clima sociale e comportamentale sono fattori che determinano l’evolversi del lavoro, ma non è opportuno considerare l’ultima congiuntura espressiva come quella riassuntiva dell’intero percorso: si vuol dire che le prime opere non costituiscono un “alunnato” per giungere all’esperienza matura.
Se si scorre la bibliografia sull’artista[1] a partire dalla monografia Lino Marzulli 1958-’78 della Diarcon Edizioni d’arte, Milano, curata da Pasquale Giorgio, un osservatore “partecipante” dell’avventura dell’artista tanto da impaginare l’ultima pubblicazione Le 12 Costellazioni Zodiacali del 2005 edite dalle Edizioni Grafiche Mek, Milano, con una ampia e puntuale rassegna dei critici e dei letterati che si sono occupati del lavoro, per giungere alla pubblicazione Lino Marzulli. Dieci anni di pittura, trent’anni di coerenza realizzata per il circolo Arci Nova “Pablo Neruda ” di Carnate del 1992 e curata da Filippo Abbiati.
Si citano, evidentemente, le edizioni a carattere antologico e non quelle occasionali, altrettanto importanti ma relative a episodi espressivi di ridotto ventaglio: nelle prime risulta evidente come la preoccupazione di individuare la linea di un percorso espressivo risulta costante, quasi il desiderio di dare ragione della produzione contemporanea con un sguardo al passato, quasi a mettere a confronto la novità dell’oggi e la sua continuità con la produzione precedente.
In modo particolare Filippo Abbiati, nel citato intervento, è stato attento a segmentare il lavoro di Marzulli in stagioni, in “cicli” che non hanno necessariamente un carattere cronologico perché più volte nel corso del tempo l’artista è ritornato sullo stesso soggetto anche a distanza di tempo, ma che agevolmente possono costituire una impalcatura concettuale con cui leggere il percorso.
Allora Abbiati propone, escludendo dalla propria indagine i passi inaugurali degli anni cinquanta-sessanta del!’artista, una articolazione individuata in prima battuta nelle “Cinque Terre” e siamo, almeno come categoria, nell’universo del paesaggio naturalistico; successivamente “I segni zodiacali”, dove possiamo cogliere una contaminazione fra cielo notturno e figura, una sovrapposizione concepibile solo nel fantastico; ancora “I giardini ” e torniamo a una visione “terrestre” anche se dai contorni indefiniti; infine “I segni magici” che nella stessa insegna predicano una contaminazione fra realtà e visionarietà.
Ho ripreso e succintamente commentato le categorie con cui può essere cadenzato il percorso espressivo dell’artista perché, indubbiamente, costituiscono un primo criterio per disciplinare e mettere a confronto i diversi esiti: una sorta di guida per l’osservatore rispetto all’ampiezza e alla varietà del materiale in visione: e questa osservazione mi sembra sia di un certo interesse perché è una caratteristica originale dell’artista nell’affrontare costantemente una pluralità di “vedute”, dal quotidiano alle costellazioni, dal paesaggio familiare che può diventare un “ritratto” di un paese o di una costa a figure umane identificate nella mitologia, quindi lontane dall’esperienza ma appartenenti all’universo dell’archetipo.
L’impostazione di Abbiati , evidentemente condivisa da Giorgio in quanto citata nel catalogo del 2005 , e quasi determinata dalla modalità operativa dell’artista è anche la griglia interpretativa della mostra e della conseguente edizione promosse dalla Società della Permanente di Milano che, dal punto di vista impaginativo, vedono invece la più canonica successione cronologica.
È laricerca delle “ricorrenze” tematiche e delle novità stilistiche il criterio con cui, con Togo, un artista profondamente connesso con Marzulli e che pubblicamente ringrazio per la spontanea generosità nell’operare[2], si è cercato di impaginare il percorso espositivo: all’osservatore non occasionale il compito di distinguere e connettere, compiendo la stessa “fatica” che abbiamo fatto nella selezione delle opere.
D’altra parte se nel lavoro di Marzulli è fondamentale il titolo dell’opera, una sorta di insegna, rispetto all’esito pittorico; se cioè la didascalia non è asettica, o legata ad avvenimenti esterni, ma diventa elemento vincolante la lettura del quadro, tale circostanza suggerisce di mettere a confronto la “parola scritta” con l’esito plastico. Questo perché ed è il secondo termine del problema all’importanza del soggetto occorre contrapporre, come concorrente non come antagonista un’avventura della forma-colore dal ruolo assolutamente nevralgico.
Sull’impianto
A dispetto delle diverse stagioni espressive la scelta iconografica di Marzulli si può definire costante, alle soglie di un dizionario che si svolge perseverante nelle diverse soluzioni stilistiche e tematiche del lavoro: nell’intervista con Carlo Munari, pubblicata nella citata edizione del 1979, l’artista afferma, per rispondere alla domanda sul futuro possibile della sua pittura che il suo modo è: “Mi pongo davanti alla tela e faccio pezzi di quadro, ripeto, li chiamo frammenti, ingrandisco, rimpicciolisco il cosmo: a volte il risultato è ermetico altre volte è palese”.
Mi sembra che in questa dichiarazione, risposta a una domanda che chiedeva un giudizio sulla prospettiva del lavoro, vi sia la chiave costante del metodo di lavoro, basata sulla divisione del campo pittorico in porzioni distinte: negli anni d’esordio questo avviene nell’accentuata scelta della bidimensionalità dell’artificio pittorico: il campo è distinto in aree cromaticamente antitetiche: ritagli e “finestre” possono alludere un primo piano o un orizzonte lontano; il segno di contorno è netto, la fisionomia del soggetto fortemente semplificata, piatta: è una scelta di campo, quando alla pennellata “consolatoria ” che accarezza e illude la volumetria dell’oggetto, si contrappone il suo ritaglio senza illusione di profondità, nella continuità di un “primo piano” che trova le sue radici nell’esperienza fauve e nella sua declinazione successiva nei Paesi Bassi dell’immediato secondo dopoguerra.
In questa architettura semplificata, anche dal punto di vista cromatico, vi è la ricerca di un vocabolario che, diversamente declinato, sarà un tema costante del lavoro successivo: il momento “svolta”, in cui si evidenzia il dialogo antitetico fra campi mi sembra ma è una opinione personale nelle opere a cavallo fra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta quando plasticamente e cromaticamente Marzulli “divide” il quadro, indipendentemente dal soggetto trattato, in zone distinte, a indicare la presenza contemporanea di due “realtà” concorrenti a produrre quella sintetica che dovremmo conoscere.
Se la fase d’esordio del lavoro prevede diverse e distinte aree adiacenti, in cui possono avvenire o essere presenti episodi dissonanti, il ragionamento successivo prevede la riduzione delle “stazioni” del dipingere, fino alla sintesi della sovrapposizione dei diversi temi, anche alla metamorfosi di cui si segnalano i contendenti: mi riferisco al tema dei “Segni zodiacali” come della particolare “Araldica” scelta fra reperti iconografici del passato e invenzione. In questa fase del lavoro riacquista con la figura simbolica la qualità espressiva della bidimensione resa antitetica rispetto a uno spazio alluso che invece suggerisce l’infinito.
In prima istanza vi è allora la volontà di narrare: abbiamo acquisito una divisione del campo che dall’annullamento della profondità degli esiti iniziali si trasforma e in questo l’esperienza del paesaggio sembra essere determinante in una indagine nella profondità fra cielo e terra per poi, in una fase ulteriore, perdere le coordinate del punto di stazione e viaggiare in uno spazio senza punti di riferimento e siamo nell’universo dello zodiaco.
Ricorrenze
Secondariamente vi è il soggetto e la sua ricorrenza: Marzulli ha costantemente lavorato su un limitato numero di soggetti, al punto che si potrebbe parlare di un dizionario ridotto di termini che, sia pure proposti in modo differente, si ripropongono. Ne può essere esempio lampante il modo in cui l’artista interpreta tanto il tema nevralgico delle “Cinque Terre” quanto quello del “Giardino”: in entrambi i luoghi siamo in presenza di una simbiosi fra artificiale e naturale alla ricerca di una sinergia, una somiglianza che solo la sensibilità dell’artista può individuare.
Ma questa capacità di “rimescolare le carte” delle categorie consuete è presente anche nel rapporto cruciale fra la figura umana e il campo, il “fondo ” in cui è inserita. Come si è detto la fase inaugurale del dipinger dell’artista prevede la partizione del campo in diverse “finestre” fra loro connesse ma sostanzialmente diversi, dove la singola presenza o il singolo episodio esposto costituisce una “tappa” della narrazione.
Anche nelle stagioni successive la “figura” singola o in relazione con altre, sarà protagonista dialettica della pittura: e sono immagini della terra, come una reinventata “natura morta” tra il fiore naturale e la stoviglia o il quadro del mondo artefatto; e sono immagini del mare, tra la barca, il pesce o la nassa; e sono immagini fra terra e cielo, come il corpo colto come frammento (il “volto” che parla) o nell’interezza della sua architettura complessa, in forte evidenza o confuso nelle altre presenze che affollano il campo; e sono infine figure del cielo, come le stelle o la luna, o il sole, riproposte in modo non mimetico ma confuse in coordinate spaziali sincopate, come se ogni presenza trascinasse con sé una porzione resistente di “fondo” solidale a essa per entrare in conflitto con lo spazio della figura successiva.
Vi sono infine delle “figure di connessione”, frammenti cromatici che possono alternativamente intervenire come limiti, come bordi della singola finestra o possono anche aggredire la fisionomia, anche la riconoscibilità della figura protagonista penso a certe “figure mitologiche” che interagiscono con questo tessuto cromatico; possono infine “velare” l’intera composizione, costituendo una sorta di “filtro ” in avanti rispetto al tema ritrattato. Un esempio evidente di questa soluzione può essere trovato in alcuni esiti delle Costellazioni Zodiacali del 2005 in cui, a una architettura di base modulare, spesso figuralmente sottolineata , si sovrappone il disegno complessivo della figura e, appunto, quello delle fasce cromatiche che percorrono l’intera composizione, un ulteriore strato che lega in unità i precedenti.
La pittura di Marzulli si propone allora come “cattura” e quindi reinvenzione dell’immagine, la sua liberazione dal soggetto referente che ha il funzionale ruolo di “stimolo” per conoscere un mondo “parallelo” rispetto a quello dell’immediato referente. Anche quando il quadro sembra avere un rapporto vincolante con il soggetto, le scelte stilistiche e le vie interpretative si emancipano dalla stretta adesione al referente perché il linguaggio della pittura è costantemente “altro” dalla replica calligrafica della realtà.
Forma-colore
In queste note si è solo marginalmente sottolineato la scelta cromatica che nel corso degli anni Marzulli ha adottato, forse perché la qualità della tavolozza è fortemente connessa con la forma che fondo e figura di volta in volta contraggono. Si vuol dire che il colore “disegna” la forma tanto nella soluzione della stesura compatta e omogenea dei primi esiti, tanto quando successivamente si aggiunge un segno-colore alternativamente capace di inquisire altre figure o di porsi come autonoma tessitura del campo pittorico.
Si tratta di una traiettoria che da un colore-terra giunge, negli esiti successivi, a un colore-luce che dalle striature omogenee giunge alla frammentazione, anche al pulviscolo: diventa allora determinante l’adiacenza, anche la sovrapposizione delle diverse cromie, ottenendo un contrasto che induce a leggere un primo e un secondo piano, un viaggio nella profondità negato dal punto di vista mimetico-prospettico.
Questo vale, evidentemente, per gli ultimi cicli che l’artista ha affrontato mi riferisco alla serie “Araldica” e ai “Segni zodiacali” ma anche ai “Giardini” e alle “Cinque Terre” in cui a un sentore di impianto prospettico , si può contrapporre una scelta della forma-colore che ribalta punti di stazione e distanze tradizionali della pittura di paesaggio.
Nel corso del lavoro la forma-colore passa allora da una “alta definizione”, dove i contorni sono definiti e perentori a una “bassa definizione”, o meglio all’alternarsi nella medesima composizione di “frammenti” di maggior e minore evidenza: i primi hanno il ruolo di “guida” per la lettura e la comprensione delle aree più incognite, comprensibili proprio a partire dalla evidenza della figura adiacente.
Lo sguardo di chi osserva un quadro dell’artista, indipendentemente dall’epoca di composizione, proprio in assenza di una scatola prospettica, di una resa in trompe-d’oeil della realtà , è “costretto” a esplorare la superficie dipinta alla ricerca di un punto da cui poi “comprendere” la composizione: si è già richiamata la vocazione narrativa, alle soglie del racconto, che la pittura ha diversamente contratto: allora la lettura, proprio seguendo le linee guida della forma-colore, riesce a connettere le diverse stazioni del percorso.
Alberto Veca, Milano 2008 (in Lino Marzulli, Stagioni del dipingere 1965-2005, catalogo della mostra, Museo della Permanente, Milano 2008)
[1] Accanto ai già citati Pasquale Giorgio e Filippo Abbiati mi sembra opportuno segnalare come altre personalità, della critica d ‘arte come della cultura si siano interessate al lavoro di Marzulli: una lettura dell’antologia critica e della bibliografia sembra esercizio di un certo interesse.
[2] Credo sia importante ringraziare anche Maria Quatela che ha, in breve tempo, messo in ordine un archivio lasciato nel disordine che il lavoro quotidiano determina: le sue indicazioni sulle opere reperibili, conseguentemente esponibili, sono state di importanza nevralgica per la realizzazione di un ‘impresa così impegnativa in tempi ristretti.